INTERVISTA ALL'AUTORE LUCA SARTORI

LE INTERVISTE DEL SALOTTO
Bentornati agli appuntamenti extra con le interviste del Salotto. Oggi abbiamo il piacere di ospitare Luca Sartori, traduttore e autore sia per Delos Digital sia del romanzo "Sherlock Holmes. L'uomo che morì due volte" per Mondadori.



Salve Luca, benvenuto nel mio Salotto e grazie per essere in nostra compagnia oggi. Ci racconti qualcosa di lei.
Salve Caterina, e salve a tutti i lettori salottieri. Sono io che la ringrazio per l’invito.
Se vogliamo concederci una metafora holmesiana, visto che siamo in tema, comincerei col dire che la mia storia è tutt’altro che canonica. Nel curriculum posso esibire una laurea magistrale in lingue e letterature straniere (110 e lode) e un master in traduzione editoriale, ma il fatto è che questi titoli accademici li ho conseguiti dopo i miei primi quarant’anni…e di anni, ora, ne ho 47. La passione per la letteratura, e per quella di un certo genere e affini in particolare, l’ho avuta sin da quand’ero adolescente, ma la realizzazione pratica di questa passione ha tardato un po’ ad arrivare. In parte è stata colpa mia, lo ammetto, perché per molti anni ho pensato più che altro a lavorare al Nord Italia (Milano e Torino) senza coltivare ambizioni che andassero al di là del racimolare lo stipendio che mi serviva per vivere. Quel poco tempo libero che avevo lo dividevo tra attività sportiva – sono sempre stato e continuo a essere uno sportivo incallito – e la lettura, perlopiù gialli/noir e libri in lingua originale. Ogni tanto, quando potevo, facevo qualche viaggetto all’estero e andava bene così. Si può dire che le mie lingue di specialità (inglese e spagnolo) le ho imparate da autodidatta. La laurea magistrale in lingue ha certificato conoscenze che possedevo già.
D’altro canto, nell’arco dei miei vent’anni di pellegrinaggio dal diploma di maturità scientifica alla laurea, dei tentativi letterari ci sono stati, benché non troppo convinti e regolarmente frustrati da un ambiente o sistema editoriale in cui la passione del dilettante nel senso buono – ovvero di colui che si diletta – e un talento inevitabilmente acerbo non vengono presi molto sul serio. Conservo tuttora le cartelle dattiloscritte – eh sì, all’epoca non ero ancora stato iniziato ai misteri della videoscrittura – del mio primo tentativo di romanzo che ovviamente ho piantato lì. Nel 1999, a dire il vero, sono stato autore in modalità “ghost writing” di una biografia romanzata di Lord Alfred Douglas. Il volume è uscito firmato da un altro autore presso un piccolo editore milanese che ha fatto ben poco per promuoverlo, abbandonandolo a un destino di naufrago nel mare magnum degli oltre 60.000 volumi che vengono pubblicati ogni anno in Italia a fronte di una sparuta comunità di lettori. La delusione è stata grande, e per un po’ di tempo ho preferito dedicarmi ad altro, ma senza lasciar perdere né perdere l’entusiasmo, il “dio che ti invade” degli antichi greci che è uno dei motori della creatività artistica.
Andando avanti con gli anni, sono maturato e ho capito che quello che facevo non mi piaceva. Per questo ho deciso di cambiare radicalmente vita e iscrivermi all’Università alla veneranda età di 38 anni. Da lì è arrivata una maggiore consapevolezza del mio voler essere “uomo di lingue e lettere”, e sono anche arrivati i contatti giusti per poter iniziare a pubblicare qualcosa. Il mio primo apocrifo l’avevo scritto intorno ai 30 anni, ma all’epoca non c’erano gli sbocchi editoriali che ci sono ora, o perlomeno, se c’erano, non erano alla mia modesta portata. Se è vero che per farsi pubblicare bisogna presentare un buon prodotto nel modo giusto, è altrettanto vero che il romanzo giusto proposto all’editore sbagliato non avrà nessuna speranza di essere pubblicato. E questo, per quanto mi riguarda, è vero anche oggi che posso vantare, diciamo così, diverse pubblicazioni nel tanto decantato curriculum vitae. Non mi sento arrivato, anzi: se fossi davvero arrivato non avrei più nulla da dire né da dare. Il mio percorso è un continuo divenire, tra alti e bassi, delusioni e soddisfazioni. Prima avevo qualche monotona certezza lavorativa in più e molta libertà in meno; ora ho più libertà ma meno certezze. L’importante è sapere dove andare, avere in testa degli obiettivi chiari anche nei momenti di confusione, come un marinaio che intravede il suo approdo sicuro e tranquillo nel bel mezzo di un fortunale.

A marzo 2021 è uscito per Mondadori “Sherlock Holmes. L'uomo che morì due volte”: potrebbe presentare brevemente il volume ai nostri lettori?
Si tratta del romanzo apocrifo più lungo che ho scritto, almeno finora. Qui apro una piccola parentesi: a differenza di altri autori, non mi sento molto portato alle lunghezze canoniche (20-30 pagine). Sì, perché, non dimentichiamolo, il Canone Holmesiano è fatto di testi brevi (56 racconti) e di lunghezza media (4 romanzi brevi). Pertanto, arrivare a una lunghezza classificabile come romanzo (150-200 pagine) è già di per sé una forma di trasgressione innovativa.
La storia, come può vagamente suggerire il titolo, è incentrata sul tema del doppio, anche se non c’entra nulla con il romanzo di Boileau-Narcejac e il film di Hitchcock. Al di là della trama con i dovuti misteri (e relativi indizi) da detective story – e anche da spy story, ammettiamolo – tratta delle tematiche che mi stanno a cuore e sulle quali ho svolto una considerevole mole di ricerche per rendere il tutto verosimile. Uno dei miei mantra letterari, infatti, è che quando scrivi, qualsiasi cosa tu stia scrivendo, che si tratti di un romanzo autobiografico o del fantasy più astruso e avulso dalla realtà in cui vivi, il punto fondamentale è sempre lo stesso: devi essere credibile, devi fare in modo che il lettore accetti il famoso patto “suspension of disbelief” di cui parlava Coleridge. E quando ambienti una storia in un contesto diverso da quello in cui vivi – in questo caso l’epoca tardovittoriana – non basta scendere in strada o affacciarsi dalla finestra; non puoi pretendere di risultare credibile se prima non fai tutte le ricerche del caso a trecentosessanta gradi, ricerche che, spesso e volentieri, ti prendono più tempo della stesura stessa del romanzo. Il segreto, se di segreto si può parlare, è interiorizzare tutto il materiale che ti sei studiato, fare tuo ciò che non è tuo, scrivere ciò che non hai visto né vissuto come se lo avessi visto e vissuto. In breve: diventare John Watson.
Per quanto concerne la trama mi limiterò a dire poche cose. Come sempre, mi sono divertito cum grano salis a mettere in pratica uno dei fondamenti teorici dell’Apocrifo: far interagire personaggi canonici con personaggi nuovi, inediti, tuoi. “L’uomo che morì due volte” è anche un gioco metaletterario e qua e là intertestuale in cui vengono messe in scena, direttamente o mediante evocazione, alcune figure canoniche che pur avendo biografie stringate si sono impongono all’attenzione del lettore, come Irene Adler, l’ispettore Lestrade o il colonnello Sebastian Moran. L’incipit, tanto per fare un esempio, è una sorta di studio narrativo sul passato afghano del dottor Watson. Inoltre, ci sono diversi “prequel storici”, ossia episodi legati a personaggi realmente esistiti che però sono inventati e precedono cronologicamente le vicende ufficiali che si leggono nei libri di storia. Insomma, le storie meno visibili e segrete che rimangono nascoste tra le pieghe della grande Storia, un po’ come teorizzava Unamuno con la “Intrahisoria”.
I temi più rilevanti sui quali ho costruito la trama, comunque, sono essenzialmente due: la rivalità politico-militare tra Russia zarista e Inghilterra che caratterizzò tutto il XIX secolo nota con il nome di “Grande Gioco” e la solitudine sentimentale. La Guerra di Crimea e la Seconda Guerra Afghana – alla quale prese parte anche il nostro amato dottor Watson – sono un corollario di questa rivalità. Le fonti storiche sono diverse: nel mio caso, mi è tornato utilissimo un saggio di Peter Hopkirk, intitolato appunto “Il Grande Gioco”, oltre un lavoro di Hans Rogger, “La Russia prerivoluzionaria”. Per quanto riguarda il tema della solitudine sentimentale, sviluppato mediante un personaggio inedito (I.A.) al quale mi sono subito affezionato, non posso non citare “The Ochrana: The Russian Secret Service” di A.T. Vassilyev e un paio di romanzi: “Storia di un uomo inutile” di Maksim Gorkij e “Sotto gli occhi dell’Occidente” di Joseph Conrad. Il doppio, in questo mio romanzo a metà tra Giallo e spy-story, non è solo quello legato alla vita di un agente segreto, ma è anche un costrutto narrativo su vasta scala: il Grande Gioco storico si sovrappone al Grande Gioco dei cultori Holmesiani in un’ambientazione che oscilla tra Londra e posti più “esotici”. Volete sapere come andrà a finire? Be’, lo scoprirete solo leggendo.

So che “Sherlock Holmes. L'uomo che morì due volte” non è il primo apocrifo che pubblica, altri volumi sono usciti per la casa editrice digitale Delos Digital e anche un saggio per Aras Edizioni. Potrebbe farci una breve panoramica delle sue opere?


Sì, “L’uomo che morì due volte” è il mio sesto apocrifo. Gli altri cinque sono tre romanzi brevi e due racconti. Il primissimo, “L’ultimo preraffaellita”, è uno studio (neo)gotico sull’arte preraffaellita, che adoro e di cui raccolgo tutto il materiale che riesco a trovare, una storia che si dipana sul classico tema eros-thanatos in chiave mystery. “Il cane e l’anatra”, a dispetto del titolo che ha un suo perché filologico svelato nel finale, è una storia ambientata in un ospedale psichiatrico che esplora il tema della follia e quello sempre attuale della violenza fisica e psicologica sulle donne. “Il labirinto della solitudine” strizza l’occhio al mondo di Borges e a quello di Shakespeare ma non solo: è il tipico “cosy mystery” con ambientazione nell’immancabile casa dell’amena campagna inglese. I due racconti, “L’avventura dei candelabri provenzali e “Lo studiolo del duca”, pur nella loro minore complessità e ciascuno a suo modo, sono escursioni nella storia e nell’arte.


Il saggio pubblicato per Aras Edizioni nel 2016, “Oltre il Sacro Canone: variazioni apocrife sul tema di Sherlock Holmes”, sesto volume della collana Urbinoir Studi, è un tentativo, alquanto ambizioso, di offrire una panoramica sull’Apocrifo come genere (finalmente) riconosciuto e i suoi rapporti con la detective fiction o la cosiddetta letteratura alta tout court. È suddiviso in tre parti: la prima è teorico-filosofica, ne esplora le ragioni profonde, le caratteristiche salienti, il peculiare status di “letteratura al secondo grado” popolata di personaggi in cerca di nuovi autori i cui testi si appoggiano ad altri testi che li hanno preceduti; la seconda è storico-antologica e riassume a grandi linee la storia del genere dalla fine dell’Ottocento alla metà degli anni ’50; la terza è una “close reading” di alcuni celebri apocrifi analizzati sulla base delle ipotesi teoriche esposte nella prima parte. Trattandosi di un’espansione di una tesi di laurea in letteratura angloamericana è inevitabilmente focalizzato sulle opere di autori britannici e statunitensi. Mi è costato due anni di duro lavoro: qualche riscontro l’ho avuto, ma, prendendo a prestito i versi di una vecchia canzone, mi aspettavo di più.

Come si pone la sua scrittura nei confronti del Canone Holmesiano?
Ottima domanda. Se il saggio di cui sopra è la teoria, la scrittura di apocrifi è la pratica, e nella pratica è fondamentale avere un metodo. L’ispirazione iniziale, abbandonata a sé stessa, serve a poco: sulle idee bisogna lavorarci, e tanto; non sono piante che crescono da sole. Come già accennato, quando si scrive un apocrifo ci si confronta sempre con il Canone Holmesiano, e ciascuno lo fa a suo modo. Nel saggio mi sono servito di una metafora “politically British”: ho suddiviso gli apocrifisti in due grandi categorie: i Tories e i Whigs, ossia i conservatori, quelli ligi al Canone fino all’ultimo cavillo, e gli eretici ribelli, quelli che si divertono a farlo a pezzi. Ecco, io mi metterei nel mezzo: quando scrivo cerco di essere rispettoso del Canone e di non contraddirlo nei suoi aspetti più macroscopici, come i riferimenti cronologici e/o culturali; di contro, però, sono altresì consapevole che per fare qualcosa di nuovo, di originale, sia necessario allontanarsi un po’ dal Canone per guardarlo dalla giusta distanza, in maniera critica, e non esserne pedissequamente schiavi. Quando scrivo un apocrifo sono Watson, ma sono anche Luca Sartori: i due autori lavorano fianco a fianco, alle volte facendo a gomitate. Watson stringe le briglie e spinge in una direzione, Luca Sartori le allenta e spinge in un’altra; alla fine, il bilanciarsi delle due azioni è ciò che consente di scrivere un apocrifo che renda giustizia al Canone soddisfacendo al tempo stesso le mie esigenze creative. Tendiamo tutti a imitare lo stile e il modo di pensare di Watson e Holmes, ma, volenti o nolenti, finiamo per contaminarli con noi stessi. Il risultato comprovabile è che l’apocrifista, se è bravo, lascia sempre qualcosa di sé, si distingue rispetto agli altri colleghi. Ed è proprio questo che fa sì che Watson e Holmes, pur rimanendo quello che sono, risultino sempre nuovi, e quindi leggibili.

Luca, oltre ad essere scrittore lei è anche un traduttore: potrebbe spiegare ai nostri lettori che impatto ha questo ruolo nel suo stile di scrittura e come viene considerato nel panorama nazionale e internazionale?


Sì, è vero sono anche un traduttore, malgrado in questo periodo stia avendo più soddisfazioni come autore. In Italia, ormai da qualche tempo, è tutto un fiorire di corsi di scrittura creativa, più o meno affidabili e più o meno costosi. Per quanto mi riguarda, non c’è miglior esercitazione di scrittura creativa della traduzione letteraria. Quando traduci non devi preoccuparti del contenuto ma solo della forma; ed è appunto concentrandoti sulla forma che impari lo stile, o gli stili, perché ogni volta sei obbligato, per quanto possibile, a riprodurre tutte le sfumature linguistiche di una “voce” appartenente a un autore diverso. Insomma, è così che si impara a scrivere, anche gli apocrifi. Inoltre, la traduzione gioca un’importanza fondamentale, almeno per chi scrive apocrifi in una lingua diversa dall’inglese. Chi scrive apocrifi in inglese avrà come modello letterario unico l’inglese di Conan Doyle. Chi li scrive in italiano, magari, si sarà letto in Canone in lingua originale, ma anche qualche traduzione. Le traduzioni, però, a differenza dell’originale, sono molteplici e spesso discrepanti tra loro. Allora la domanda è: a quale traduzione del Canone devo guardare per riprodurre lo stile di Watson/Conan Doyle in italiano?
Piccola parentesi sulla percezione degli autori italiani di apocrifi all’estero: se è vero che questo genere letterario, per ovvie ragioni, nasce in un contesto culturale anglofono/angloamericano e da noi in Italia arriva giocoforza dopo, è altrettanto vero che gli apocrifisti italiani hanno ormai raggiunto un livello di qualità letteraria tale per cui, lo dico senza falsa modestia o pretenziosità, non hanno nulla da invidiare ai più blasonati colleghi britannici o statunitensi. Anzi, per certi versi, possono arricchire il genere e le sue già numerose possibilità, perché oltre a essere anglisti/esperti del Canone Holmesiano sono anche scrittori italiani con la sensibilità letteraria tipica di uno scrittore italiano. In Italia, Delos Books e Mondadori stanno portando avanti un’opera meritoria di traduzione e divulgativa di autori stranieri; all’estero, bisogna dirlo, in particolare nel mondo anglofono USA/UK, non c’è un editore che stia facendo la stessa cosa rispetto agli autori italiani. Da traduttore che traduce testi di altri autori, aspiro a essere tradotto anche io da altri. Per il momento, gli unici miei due apocrifi tradotti in inglese sono “The Last Pre-Raphaelite” e “The Adventure of the Duke’s Study”, entrambi pubblicati nella collana 221B Baker Street di Delos ed entrambi tradotti dal sottoscritto. Sì, mi sono anche concesso l’ebbrezza dell’autotraduzione, e attiva, per giunta, ossia dall’italiano all’inglese; contemporaneamente, mi sono anche tolto lo sfizio squisitamente giallistico di pubblicarli con uno pseudonimo anglofono: Victor Carstairs. La par condicio è sempre stata un mio pallino.

Oltre a scrivere apocrifi legati all’universo di Sherlock Holmes, lei si cimenta anche in altri generi letterari. Le andrebbe di raccontarci qualcosa di più in merito?
Volentieri. In autunno, non saprei la data precisa, uscirà un mio romanzo sui generis per la Aras Edizioni. Non è un apocrifo, ovviamente, anche se guarda al mondo del Giallo e del noir. Nel cassetto ho anche un altro romanzo a metà lo storico e il fantastico che ho scritto più di dieci anni fa e non sono ancora riuscito a piazzare. Da tempo ho in testa un personaggio mio per un giallo, ma devo ancora metterlo a fuoco e trovargli un’ambientazione adeguata. Il problema, poi, sarà trovare un editore. Per gli apocrifi ho una strada già tracciata e dei referenti editoriali di cui mi fido, perché ne conosco la correttezza e la competenza. Quando, come è lecito, vuoi cimentarti in qualcosa di diverso, devi mettere in conto un’Odissea per trovare un referente editoriale che, non conoscendoti, nel migliore dei casi ti dirà no, e nel peggiore non ti risponderà nemmeno. Mi preme mettere in chiaro che per me scrivere non è un hobby. Un hobby è qualcosa che fai a tempo perso e senza nessuna aspettativa. Io, nella scrittura, investo tempo, energie e conoscenze; di conseguenza, mi aspetto un qualche genere di ritorno. Solo le poesie – ebbene sì, scrivo anche poesie in due lingue – le scrivo per me stesso, senza fini editoriali, perché, siamo sinceri, la poesia oggigiorno non ha mercato e va presa con la spensierata serietà della “writer’s holiday” già citata da Virginia Woolf in merito a uno dei suoi romanzi minori.

Sta lavorando a qualche nuovo progetto, magari che includa un seguito per “Sherlock Holmes. L'uomo che morì due volte”?
Sì, sulla scia dell’onda lunga delle ricerche svolte per il romanzo che è in edicola, sto scrivendo un altro apocrifo più o meno della stessa lunghezza e complessità, lo confesso. In realtà non è un seguito de “L’uomo che morì due volte” nel senso cronologico del termine, perché è ambientato prima. Diciamo invece che è un seguito filologico: ha molto a che vedere con la Russia di fine Ottocento, per la quale ho un debole letterario: leggo e ho letto le opere dei grandi russi come Dostoevskij, Cechov, Pushkin, Bulgakov, Gogol e Belyj, traendone tutti gli spunti che posso trarne. Ho in testa una “trilogia russa” di cui “L’uomo che morì due volte” è il primo capitolo. Ora sto lavorando sul secondo, e quando l’avrò pubblicato, con calma, comincerò a pensare al terzo. Navigo a vista, ma la rotta la conosco bene.

Grazie a Luca Sartori per essere stato in nostra compagnia oggi. Vi ricordo che i suoi ebook sono disponibili su Delos Digital Sherlockiana e Delos Digital 221b, mentre il suo saggio è disponibile su Aras Edizioni.


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